Un’impiegata di 43 anni nel 2013 che vive a Forlì e invalida civile al 67%, nel 2012 scrisse un post di sfogo su facebook contro il suo posto di lavoro:
«Mi sono rotta di questo posto di merda», il post provocò la reazione dell’azienda, che fu visto e letto dal legale rappresentante dell’azienda che aveva fra i suoi contatti.
La donna cancellò il post e decise di impugnare l’atto al tribunale del lavoro, in primo grado e poi in appello, che gli furono respinti entrambi con la giustifcazione di comportamento diffamorio e scorretto e quindi il licenziamento per giusta causa, decisione definitiva avvenuta dai giudici lo scorso 27 aprile.
Secondo i magistrati «i social sono uno spazio pubblico, nel quale i contenuti potenzialmente diffamatori possono trovare un vasto eco. È venuto meno, in buona sostanza, il vincolo fiduciario che deve esistere tra azienda e dipendente».
«La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione – ha spiegato la Corte Suprema – per lapotenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Scrivere un post sul social realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso per l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone con la conseguenza che, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili».